NEVICA… BUENOS AIRES TROPPO TARDI!

Un brivido mi ha assalito stamattina quando ho visto sui quotidiani argentini e non solo, la notizia che Buenos Aires è imbiancata sotto la neve. Un evento così raro da apparire fittizio, irreale, l’ultima nevicata fu nel 1928. Il romanzo che sto scrivendo, ambientato a Buenos Aires e dal titolo provvisiorio “Buenos Aires troppo tardi” inizia proprio con una nevicata, un evidente omaggio all’Eternauta del desaparecido Héctor German Oesterheld che iniziava appunto con una nevicata, che in quel fumetto era radioattiva.

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Página12 titola: “Buenos Aires Eternauta”; fotogalería su http://www.lanacion.com.ar/

Ecco l’attacco di “Buenos Aires troppo tardi”:

“Sarà per il grande accrescimento urbano che non si registrano nevicate nella Città di Buenos Aires. Un fenomeno che fu osservato per l’ultima volta il 27 luglio del 1928, mentre la nevicata più importante ebbe luogo anni addietro, fra il 22 e il 23 giugno del 1918.”
“Ricordiamo agli ascoltatori che siamo in compagnia del professor Ricardo Granados, dell’ufficio meteorologico del Governo di Buenos Aires e del poeta e operatore culturale Santiago Vega, alias Washington Cucurto, nostri graditissimi e tempestivi ospiti stamattina – afferma la voce della conduttrice radiofonica –. Con loro cerchiamo di capire l’eccezionale nevicata nella nostra città. Prego professore.”
“La città di Buenos Aires genera quella che viene definita “isola termica”, nella quale la temperatura è aumentata come risultato della urbanizzazione, dell’asfalto e della diminuzione delle aree coltivate.”
“Sogni, ricordi che vengono giù dal cielo, anime, pensieri mai espressi… merda, chissà di cosa è fatta questa neve” osserva alla radio Washington Cucurto.
“Se ad esempio prendiamo questa immagine satellitare del giorno 24 agosto del 2001 – riprende il professore – si vede… ovviamente chi sta in ascolto non la vede ma può trovarla su Internet, basta cercare l’immagine 14:45 UTC GOES 8. In questa immagine satellitare, dicevo, è evidente l’assenza di nuvolosità bassa sopra la Capital Federal, per effetto del riscaldamento urbano, mentre intorno alla città si addensano le nuvole, come se non riuscissero a penetrare nel cielo della città. Come se si imbattessero in una cortina invisibile, ma impenetrabile. Ebbene ora dentro quella cappa, dentro quella cupola, nevica.”
“Quindi professore, se ho ben capito – ride Washington Cucurto –, siamo come dentro a una sfera souvenir con la neve, come quelle che gli ambulanti vendono sull’Avenida Santa Fe? E senza dover prima agitare la città?”

  Nel quartiere Villa Crespo una donna minuta ed energica esce in strada in pantofole armata di secchio e saponata per ripulire il marciapiede da quei filacci bianchi davanti alla porta. Non è lana, né guano, né piume d’uccelli, e non ammanta solo il tratto davanti alla sua porta, sta ovunque, tutt’attorno. La donna – Rosalba si chiama, possiamo già darle il nome – guarda verso l’alto incredula, come senza forze, fa due passi e si affaccia verso l’Avenida, che non ha profondità. Un muro pulviscolare a chiudere la vista del viale nel biancore cieco. È come la profezia di una scrittura sacra. E tutti per strada o alla finestra a guardare tetti, alberi, strade, panchine ed auto imbiancate. Fiocchi di cotone densi, mossi da un ventilatore invisibile. È la fine del mondo. O forse l’inizio di un mondo nuovo. I tassisti suonano il clacson come impazziti, gli autisti dei colectivos ne approfittano per riappropriarsi della carreggiata. Qualche automobilista si unisce al concerto, qualcun altro suona per protestare. La neve rallenta il traffico, se continua così qualche macchina comincerà a sbandare. Domani potrebbe esserci bisogno delle catene per circolare e la città potrebbe persino fermarsi. Sulla Nueve de Julio il corteo di auto è assordante, come una festa nervosa. L’uomo col cappotto grigio e il cappello di feltro verde muschio, che cammina all’angolo fra Laprida e Mansilla, sembra non meravigliarsi. Magari è di chissà quale paese del sud o delle Ande, di un posto dove con la neve hanno confidenza, o forse ha altro per la testa. La neve è l’ultima delle sue preoccupazioni. I ragazzi con la divisa del Collegio Guido Spano, invece, appena usciti dall’istituto strepitano e giocano sul marciapiede, schiamazzano, si tirano palle di neve, e scivolano e cadono felici. E così dall’altra parte della città, ecco i piccoli uomini nelle divise del Collegio Mariano Moreno incantati dalla coltre bianca. Eccolo, il primo pupazzo di neve nella storia del quartiere Almagro.
L’uomo col cappotto grigio entra al caffè dell’angolo, si toglie il cappello di feltro verde muschio, prende posto al bancone, accanto al tavolino dove il tipo calvo sta sfogliando l’inserto Deportes della Opinión, e ordina un croissant e un caffè lungo. Il barista sorride, ha l’euforia dei giubilati, la nevicata lo ha ringiovanito. “Che neve!” esclama, passando il panno sul bancone. “Dev’essere un segno divino”.
“Dio avrebbe avuto un’infinità di occasioni migliori per manifestarsi” borbotta il cliente che intanto si è tolto il cappello di feltro, “perché farsi vivo proprio adesso che non succede niente.”
Ma il barista non lo ascolta, è troppo eccitato per dar retta all’uomo. “Io lo sapevo che Dio si sarebbe fatto vivo, e proprio in Argentina.” Serve la brioche e il caffè, accompagnato da due zollette di zucchero sigillate e da un bicchiere d’acqua. Poi ripassa il panno giallo sul bancone pulito. Un gesto meccanico, inutile – pensa l’uomo dal cappotto grigio – come il cane che dopo aver fatto i bisogni gratta dietro sé anche l’asfalto. Il barista porta dei baffi folti, inutili pure quelli, ha una voce da fumatore e mani da uomo di campagna. Si risiede sullo sgabello. Allarga le braccia e sentenzia: “Siamo testimoni di un miracolo unico, irripetibile. Fra qualche secolo potremo dire: noi c’eravamo!”
L’uomo col cappotto grigio ricorda che un effetto simile lo si vide nel 1978.
“Dai palazzi venivano giù coriandoli e striscioline di carta per festeggiare la Coppa del Mondo.”
Il tipo calvo – si chiama Rogelio – senza smettere di sfogliare Deportes, approva con un cenno sospettoso della testa.
“Ma quei coriandoli non erano come questa neve” opina il barista. “Bianchi sì, ma quelli erano due pugni di coriandoli di carta, vuol mettere? Questa è spuma di sapone degli angeli, questa ripulisce l’umanità da tutti i peccati.”
“Ah, quand’è così, allora ha ragione lei: Dio potrebbe aver pensato di iniziare da Buenos Aires, magari con qualche decade di ritardo…”
“Che ne sappiamo?” fa il ragazzo con la giacca a vento blu scuro, che fino a quel momento è rimasto in silenzio. “Magari è così in tutta l’Argentina. O magari sta nevicando in tutto il mondo. Accendi la tv Jorge.”
“La tv ha smesso di funzionare ieri notte” replica il barista. “E cazzo se le ho dato colpi per ricevere meglio! Ma niente. Posso accendere la radio”.
 

  Lascia la luce del corridoio accesa e la porta socchiusa. Ti disturba il buio? Meglio così, la penombra avvicina, apre gli animi, li rende vulnerabili.
Patricia non attende la mia risposta, ma anch’io preferisco la penombra.
Le sfioro il viso col naso. Sento il suo respiro, mi entra nell’orecchio come una promessa. Le faccio sentire il mio, la riscaldo con i miei sbuffi taurini, e lei con impeto mi avviluppa la lingua fra le sue labbra morbide. Ricambio. Ci assaporiamo finalmente. Spegniamo la nostra sete. Un’acquolina che circola da giorni ormai, un gioco di rimandi, frasi lasciate a metà, sottintesi, attese, finché poco fa non mi ha chiesto di aiutarla a cercare in camera sua lo spartito per Eduardo, un pretesto qualsiasi.
Le bacio piano il collo, fin dietro le orecchie. La sua pelle di seta sotto la camicetta… di là si sentono gli accordi stanchi di Eduardo al piano, suona quella musica ubriaca. Ci abbandoniamo sul suo letto, il respiro di Patricia si diffonde sulla mia pelle, si propaga in corridoi e linee di fuga imprevedibili. La lusinga dei suoi fianchi… Mi avvinghia con le sue gambe mobili, mi spinge la testa giù con la mano. Buio e tepore. Traspira. Sono nelle segrete di Patricia. Il centro del mondo è qui in questo momento, sotto questo pizzo che scosto piano, in questa stanza in penombra nel quartiere Palermo, Buenos Aires, Argentina. È un visino tenero ad occhi chiusi il suo ventre. Sembra fuoriuscire dalla sua intimità, ma non è un parto. È la Patricia di sotto, quella notturna. È liscio e innocente, con una nota enigmatica di malizia che promana dalle labbra carnose.
“Presento le mie reverenze alla sincerità della carne argentina” dico al visino. “Per un entrecote succulenta, baci di dulche de leche all’adrenalina” e la bacio.
Le sue cosce mi chiudono le orecchie. Forse Eduardo ha smesso di suonare, forse ora sussurra qualche parola sensuale nell’orecchio ubriaco di Raquel. Anche allora mettevamo su un disco e andavamo in camera, mentre i ragazzi stavano di là nel living a parlare e fumare. A Parigi la chiamavo la Maga, con la sua cascata di capelli ricci, ecco la riconosco, anche se ora sembra un’altra, dai capelli biondi e lisci. È ancora lei, ogni volta ritorna in luoghi diversi e con nome, sembianze e trovate diverse. Perciò la Maga. Quella volta in rue de Recolettes sembrava che il vento facesse suonare il fogliame, un sussurro leggerissimo, ma era neve alla finestra, e noi sembravamo corrispondergli. La Maga si sfogliava come un albero in autunno e per la stanza turbinavano petali.
Ora mi è chiaro. La riconosco dall’artificio del visino che si affaccia dalla sua natura. Non l’avrei detto quando mi ha proposto con una nota di ingenuità dissimulata di andare in camera sua a cercare il volume Clásicos Argentinos.    
Dalla strada giungono i riflessi delle insegne luminose. Un circolo purpureo intermittente inonda la stanza, inonda Patricia, traccia archi sulle sue gambe. Siamo al centro di una scena che sembra allestita apposta per noi, le luci arrivano dalle insegne pubblicitarie.      
Io l’ho già vista questa cosa del visino che fuoriesce dalla fessura, l’ho vista su un numero di Fierro. Sono come dentro quel fumetto di El Tomi “El desmitificador argentino”. Sto pensando ad altro, non a Patricia. Né a quella di sopra, né a quella di sotto. E avverto come un lieve senso di colpa, apro gli occhi e la guardo, per non distrarmi da lei. Diamine, è bellissima. 
È quasi l’alba.
“Nevica” si stupisce sottovoce lei. Ha visto la neve con la coda dell’occhio.
Alla finestra pallida si vedono i primi fiocchi cadere.
Mi afferra la testa e me la accompagna su. Patricia… sento le file ordinate delle sue ciglia, che mi solleticano. Mi mordicchia piano il lobo dell’orecchio. “Nevica, nevica…” sussurra. Ed entro nei suoi occhi che nevicano. Ora siamo uno dentro l’altra e ci fondiamo in unico organismo, in un animale nuovo che siamo io e lei.
 

  Anche Ester, in quello stesso istante provvisorio dell’alba, ha visto i primi fiocchi. Juan russava e l’ha svegliata. Si è alzata è andata in cucina a bere acqua e ha visto la neve alla finestra. La neve contro il buio del quartiere Vicente Lopez sembrava una lusinga. Ester ha visto i primissimi fiocchi, la cascata bianca quando sotto era ancora scuro. Il bianco che conquista il nero, schiacciandolo a terra. Un momento irripetibile.
Ester non può conoscere il sogno che tormenta Juan.
  Era qualcosa che voleva morderlo, che gli si avvolgeva intorno e che voleva morderlo e ucciderlo. Era qualcosa di lieve che gli si cospargeva dappertutto, qualcosa di lieve, fresco e persistente che non lo lasciava respirare. Aveva capelli fini e una pelle liscia e voleva ucciderlo. Perché? Non ne era certo, ma sapeva che avrebbe dovuto difendersi. Era un gioco lento e terribile, lui cercava di liberarsi ma senza riuscirci, e aveva denti bianchi che lo mordevano. Allora lui cercò qualcosa. Allora Juan cercò il revolver.
  Ora è già mattina alta. Sono le nove, Dio che tardi, Juan dev’essere già uscito. Non l’ha svegliata per dirle della neve. O forse se n’è accorto solo quando è sceso in strada. O forse ha smesso subito di nevicare e quando Juan è uscito il marciapede era appena umido. O forse era un sogno e quei fiocchi non sono mai scesi giù. Ester accende la radio:

“Certo è che una nevicata così a Buenos Aires non si era mai vista.”
“Né così né altrimenti, signor Cucurto. Non si è mai vista affatto la neve a Buenos Aires, che la gente ricordi. Come dicevo…”
“Professor Granados, io voglio dire che forse questa neve viene dalle persone, dalla convivenza nella metropoli, come i sussurri, i respiri. Sarà quello stare tutti insieme che genera i prodigi, come pure le piaghe…”
“Ma questi fiocchi sono reali, signor Cucurto!”
“La interrompo professor Granados per confermare che si tratta di neve – riafferma la voce della conduttrice –. Quella che vedete cadere dal cielo sulla città è neve. Neve genuina, atmosferica, niente di artificiale. E intanto ricordiamo il nostro sponsor.”

“Spegni Jorge, ce ne sbatte un cazzo dello sponsor. Non dicono se nevica solo qui oppure no.” dice il ragazzo seduto al bar dell’angolo fra Laprida e Mansilla.
“Abbi pazienza, adesso dicono quanto nevicherà ancora, se nevica anche nel resto del Paese… E poi voglio sentire che altro dice Washington Cucurto al professore.”
“Come sarebbe “se nevica nel resto del paese”?” obietta Rogelio, l’uomo calvo che ogni tanto stacca lo sguardo dall’inserto Deportes. “Ma non hanno appena detto la storia della sfera? …nevica solo qui, Jorge. Buenos Aires è in una bolla magica!”
“Visitate la Expo Nieve 2007. Expo Nieve 2007 occupa i cinquemila metri quadri coperti del Pabellón Ocre della Rural…”
  In quel momento sbuca dalle ante dal retrobottega una donna, si trascina appresso l’odore di fritto della cucina, che espande a ondate, la segue con qualche istante di ritardo. Indossa un camice uguale a quello di Jorge, stesso color carta da zucchero stinto, e non sembra avere in volto la rassegnazione di una dipendente, piuttosto quella di una moglie. Si sporge e direttamente dal bancone fa scivolare due uova fritte sul piatto di Rogelio di nuovo intento a leggere Deportes.
“Niente revuelto gramajo, oggi, Rogelio. Ho finito le patatine. Ti dovrai accontentare delle sole uova.”
“Ana, mi macchi se getti le uova da lassù. Guarda quanti schizzi!” indica sul dorso del giornale aperto.
“Quattro uomini, non uno che pensi – commenta la barista –. Si pianta la tele e andate in tilt anche voi. Non avete un parente, un amico, un’amante a Córdoba o a Mar del Plata? Chiamate e chiedete se lì nevica, anziché aspettare che ve lo dica la radio!”
“Ricordiamo agli ascoltatori che Washington Cucurto è il fondatore della Editorial Eloísa Cartonera, un progetto artistico, sociale, comunitario senza fini di lucro, nel quale i cartoneros si mischiano ad artisti e scrittori…”
 

  L’insegna dice “Café Sol”, eppure l’indirizzo è questo, Laprida angolo Mansilla. Solo che qui dovrebbe trovarsi il tenebrarium del racconto di Borges e Bioy Casares. Il caffè è piccolo e modesto, abbastanza ordinario, anzi dimesso, ha l’aria di un anonimo caffè di quartiere, bancone a elle, bottiglie di Chissotti e Anice Ocho Hermanos sui ripiani dietro il bancone. Sedie e tavolini antichi, ritratti di Carlos Gardel alle pareti, chiacchiere animate fra gli avventori e un parlottare radiofonico che mormora in sottofondo. Non sembra un ritrovo letterario, i clienti parlano della nevicata, discutono come tifosi, con agonismo, nessuno sembra andare d’accordo con nessun altro. Lo immaginavo diverso il tenebrarium, pensavo che l’artista del racconto frequentasse un caffè più aderente alla sua eccentricità.
Non sembrano aver fatto caso a me, meglio così, non sarò l’esaminatore che modifica suo malgrado l’ambiente da esaminare. La signora passa un panno sul mio tavolo, e chiede “Che le porto?”
“Un caffè grazie.” “Nient’altro?” “No grazie.” Un buono spunto per il romanzo, i luoghi della letteratura porteña, lo scarto fra come li disegna il pensiero leggendoli sui libri e come appaiono nella realtà.
La signora porta il caffè al tavolo, con sufficienza, quasi con alterigia.
“Lo sa che questo caffè è nominato in un racconto?” la informo. “Un arte abstracto, in Cronache di Bustos Domecq, di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares.”
“Ah… ” fa lei. Non credo che la mia informazione le aggiunga qualcosa.
Forse ho preso un abbaglio, d’altronde un incrocio fra due strade ne forma ben quattro di angoli, ma agli altri tre non c’è nulla che offra un passaggio, una breccia aperta nella muraglia cinese della loro incuria. Qui perlomeno c’è un bar, qui qualcuno può aver udito la musica metallica delle posate e lo strepito occasionale di un bicchiere rotto. 
Registro i discorsi degli avventori. Se è vero che non c’è dialogo, non c’è frammento di dialogo udito per strada che non meriti di entrare nella letteratura, allora anche questo è un bel posto per iniziare.
“Non vi rendete conto che è quella cosa là fuori a renderci così aggressivi?” accusa il giovane dalla giacca a vento blu, alzandosi in piedi per declamare.
“Ma come si fa a pensare che la neve possa cambiare gli umori?” replica con energia l’uomo dal cappotto grigio. “Allora a Córdoba, a Usuhaia o in Svizzera la gente vivrebbe in uno stato perenne di alterazione? Chi davvero cambia gli umori sono i ciarlatani come questo signor Washington Carajo o come diavolo si chiama, lui e i disfattisti come lui, come il signor Lanata, come i giornalisti di Página12!”
 
  Cercava il revolver, disperato, ma il revolver era nel terzo cassetto dell’armadio, dietro la Leika e i rullini fotografici, dietro le bobine, dietro le cassette delle tempere, dietro la lattina d’olio, dietro lo strofinaccio, dietro, dietro. E le pallottole stavano da parte, in un astuccio.
  Ester non può conoscere il sogno che ha tormentato Juan. Eppure un sesto senso la spinge a cercare, fruga nell’armadio, scosta lo strofinaccio, poi la lattina dell’olio di lino, le cassette delle tempere, le bobine, i rullini, la Leika e finalmente apre il terzo cassetto. Vuoto. Non è possibile, Juan ha preso con sé il revolver!

  Ed ecco Patricia, la Maga. Entra al Caffè Sol, batte i piedi sul tappeto, deposita l’ombrello, si toglie la cuffia e libera la sua chioma bionda. Impone un attimo di silenzio e di sguardi a tutti i presenti nel caffè, si avvicina al mio tavolo. Gli avventori riprendono ad ascoltare la radio.”
“Non ti aspettavo Patricia. Non vai in facoltà oggi?”
“No. È chiusa per la neve.”
“Come facevi a sapere che stavo qui?”
“Veramente sono entrata qui per caso”.
“Faccio finta di crederti”.
“Eusebio, credo di aver combinato un pasticcio.”
“Pasticcio? Hai saltato un giorno delle pillole?”
“No. Seriamente. Ho fatto qualcosa che non sono riuscita a fermare. Ho fatto nevicare, mi stava piacendo molto ieri quando stavamo insieme, ed ero così presa che ho fatto nevicare. O meglio, ho pensato alla neve, ho pensato che la neve alla finestra fosse perfetta per noi, lì in quel momento…”
“Questa neve di cui tutta la città parla… vuoi farmi credere che è opera tua?”
“Non fare finta di non aver capito. Sai benissimo che posso. Il punto è che non riesco a fermarla. Non ci riesco perché non so come l’ho fatta partire. L’ho solo pensata, con energia, con desiderio, e puff! Ha iniziato a cadere.” 

“Riprendiamo questa puntata speciale interamente dedicata all’evento eccezionale che stamattina ha sorpreso tutti i portegni. La neve. Buenos Aires è bianca. Una data che resterà nella memoria della città, quella di oggi…”
“Ma voi siete sicuri che questa nevicata sia una festa per tutti?” provoca Cucurto. “Ci sarà tanta gente che non se la passerà bene stanotte. I cartoneros, la gente delle villas miserias…”
“Be’ i cittadini più sfortunati soffrirebbero comunque per le temperature rigide, neve o non neve. Se ad esempio consideriamo le minime degli…” 
“Puttanate, Granados. È sempre la minima a Boedo, per non dire delle villas miserias, anche se nella Capital Federal non la registriamo.”
“Be’, capisco, ma…”
“No, lei non capisce Granados. Crede di capire, ma non ha mai passato un giorno da cartonero.”
“Io non vorrei interrompervi, ma ricordo che siamo qui per parlare della nevicata eccezionale, tuttora in corso, che continua a imbiancare Buenos Aires” concilia la voce femminile.
“Ho sentito mio fratello a La Plata!” esclama il ragazzo dalla giacca a vento blu. “Lì c’è solo qualche nuvola. Nessun fiocco bianco, neppure di polistirolo.”
Bravo – pensa la signora al bancone – la tele e il cervello non prendono, il telefono sì.
“A nessuno è venuto in mente qualcosa?” insiste alla radio Washington Cucurto. “Vi siete chiesti come mai in città, nonostante “l’eccezionale nevicata”, si respira una specie di inquietudine? Io sento questa atmosfera incerta, lei professore la avverte? È come se la neve ci avesse spaventato, rinchiuso… incattivito. Non so i giovani, loro se la staranno spassando con la neve, ma noi… Non siamo per nulla eccitati. Siamo elettrizzati, sì ma guardinghi, diffidenti, no?”
  Al Café Sol gli avventori si esaminano con lo sguardo l’un l’altro. Jorge, il barista, si sente più osservato degli altri, è imbarazzato. È come se Cucurto avesse detto che gli ultratrentenni giulivi sono idioti. Guardinghi bisogna essere. Lui è guardingo, sì, ma giulivo. Che si fotta Cucurto, che può capirne lui, al chiuso di uno studio radiofonico! Andasse all’aperto a godersi la neve capirebbe!
“Cucurto ha ragione” concorda il ragazzo. “Anche noi stiamo qua dentro a sentire che ci dice la radio di ciò che potremmo vedere di persona oltre il vetro.”
Il cervello del ragazzo a poco a poco prende a funzionare – pensa la barista –. Sarà a transistor come i televisori di un tempo…
“Cucurto avrebbe ragione? – si infervora il cliente col cappotto –. Cosa vorrebbe insinuare questo Cucurto che è un signor nessuno? E cosa vorrebbe insinuare lei, giovane? Io ne ho fin sopra i capelli della neve. Ci vivo in mezzo alla neve. Preferisco stare al chiuso, senza le inquietudini di cui parla questo paladino di cartoneros!”
“Intanto riceviamo un sms da parte di un ascoltatore – riprende la radio – : “A me questa neve inquieta. Sono rimasto al chiuso. Mi ricorda la neve radioattiva dell’Eternauta. Pablo”. Grazie, Pablo, in effetti non l’abbiamo ricordato, ma il famoso fumetto L’Eternauta iniziava con una nevicata radioattiva. Lei Cucurto si riferiva a questo effetto quando parlava di atmosfera inquieta?”
“Se dovete parlare di nevicate radioattive e di fumetti, io potrei salutare e rientrare all’ufficio meteorologico” sibila il professor Granados. “Lì potrei essere più utile.”
“Non credo – risponde Washington Cucurto, ignorando la minaccia di abbandono del professor Granados – non penso che il rimando a quel fumetto sia causa dell’inquietudine. Piuttosto Oesterheld ha registrato in quel fumetto l’inquietudine che c’è pure oggi, questo sì.”

N.B. il corsivo è la traduzione di un passo del racconto “Il sognatore” da “Los oficios terrestres” di Rodolfo Walsh, autore e giornalista desaparecido, che attualmente sto traducendo, e che nel romanzo è un personaggio centrale, evocato e “rintracciato” dal protagonista.

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9 Responses to NEVICA… BUENOS AIRES TROPPO TARDI!

  1. Gianluca Floris dicono:

    Innanzitutto premetto l’orgoglio di essere stato uno dei primi lettori del brano qui pubblicato, incipit del nuovo romanzo di Paolo. Descrivo poi la mia meraviglia nel leggere il momento poetico della neve invocata, sognata e “creata” da Patricia la maga che poi non sa come fermarla.
    E quindi ecco la sorpresa, ecco l’ingresso in uno dei mondi paralleli che tanto piacciono a Paolo, una di quelle scatole cinesi che più oltre, nel suo prossimo romanzo, si paleseranno con realistica assurdità.
    Ecco che veramente in questi giorni a Baires nevica. Ed io lo so, lo so con certezza che è stato Paolo a fare nevicare sulla Avenida Nueve de Julio o come accidenti si chiama quella: la strada più larga del mondo. Solo che ora non sa più come far smettere, come Patricia. E neanche io so cosa suggerirgli. Continua Paolo. C’è l’urgenza del narratore che preme sull’acceleratore chiedendo strada. Fai accostare tutti sulla destra che il raccontatore di storie, il creatore di realtà deve passare avanti a tutti. E a tutto.
    Un abbraccio da Gianluca

  2. Paolo dicono:

    Grazie per le belle parole Gianluca e per la fiducia sconfinata!! Io a mia volta suggerisco: sarà stato Héctor German Oesterheld, il desaparecido autore dell’Eternauta (che iniziava con una nevicata) a far nevicare dall’olimpo in cui si trova insieme ai martiri della dittatura 1976-83?

  3. paolo dicono:

    Come faccio dire a Washington Cucurto (che esiste veramente) nel brano qui sopra, non tutti festeggiano per la neve: soprattutto gli indigenti.
    Come scrive il quotidiano El Clarín: “Otros cinco muertos por la ola de frío: ya suman 17 desde el lunes”
    Las víctimas son un joven matrimonio y su hijo de un año que se asfixiaron con monóxido de carbono en Bahía Blanca, a raíz de una falla en un calefactor. Y dos hombres por hipotermia: uno de 41 años, en Carlos Paz, y otro de 63, en Santiago del Estero. Las cinco víctimas fatales que se conocieron hoy se suman a las siete que tomaron estado público ayer y a las otras tres -todos indigentes- que fueron informadas el lunes último, cuando se inicio la ola de frío, que tuvo como característica una inusual nevada en Buenos Aires.

    http://www.clarin.com/diario/2007/07/11/um/m-01455205.htm

  4. paola dicono:

    ciao Paolo, aspetto il seguito!

    saluti ad Eli.

  5. luciana dicono:

    ciao Paolo, ho appena letto l’incipit qui sopra. contrariamente al mio solito, sarò più concisa della sintesi di un riassunto. complimentoni, se questo è l’inizio… resto in attesa di leggere il resto! non so se sei stato tu a far nevicare… ma è una coincidenza che non mi stupisce. sempre che si tratti di coincidenza, e non è detto! aspettiamo altre storie, altre magie, altre…realtà immaginarie, altre illusioni e giochi di specchi, più veri del vero.
    Luciana

  6. Paolo dicono:

    Grazie Luciana! Mi raccomando, guarda qualche post più sotto il concorso Inedito Portico… e se ti ispira partecipa! ciao Paolo

  7. Nino Nonnis dicono:

    Bravo Paolo. Hai prodotto atmosfera, di luoghi, personaggi e accadimenti. Siccome hai cominciato, devi continuare, e non dire dopo che hai continuato per colpa mia. Prevedo, secondo la casa editrice, che uscirà nel 2010. A meno che lo scalone…

  8. francesca dicono:

    ciao paolo

    u bell’incipit! preceduto dalla notizia della neve che sembra farti fluire tra realtà e finzione.
    aspetto il seguito

    guara oggi D di repubblica , la rubrica Invece Concita
    ciao
    francesca

  9. Andrea dicono:

    Ciao Paolo, grazie per averci offerto l’incipit del tuo nuovo romanzo. Quello che mi ha colpito, oltre quello che è stato detto da Nino nel suo commento, è quel senso di inquietudine che tu fai mettere in evidenza da Washington Cucurto. Mi sembra che sia proprio di questa inquietudine che ci sia bisogno. Il clima e i dialoghi al Café Sol sono descritti in modo tale che sembra di essere presenti, magari in un angolino nascosto. Spero di poter presto leggere il seguito, altrimenti mi inquieto.
    Ciao
    Andrea

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